Uso corretto dei Dispositivi di protezione Individuale sulle PLE e i consigli di importanti ed esperti formatori e produttori di DPI.
Come spiegato nell’articolo introduttivo a questa serie di pubblicazioni sulle PLE, acronimo comune con cui si definiscono le Piattaforme di Lavoro mobili Elevabili, questi costituiscono uno dei mezzi più sicuri per il lavoro in quota.
Ma anche le PLE presentano dei rischi di caduta importanti che, se sottovalutati, possono causare gravi infortuni o morte all’operatore, soprattutto se non usate correttamente e con i giusti DPI.
Quali sono i giusti DPI da usare su una PLE e cosa dicono le norme e quali sono le buone pratiche?
Rispondere a queste semplici domande non è stato poi molto semplice, anzi… mi sono imbattuto in quello che io definirei “uno scontro di punti di vista” all’interno del mondo del safety e dei suoi principali protagonisti.
Ed è proprio a questi specialisti che ho voluto chiedere la loro opinione.
Il primo di questi è Ezio Granchelli con il quale parleremo di normative ma anche di “vuoti, carenze ed interpretazioni”.
L’intervista è molto tecnica ma so per certo che anche chi legge è un professionista e lo troverà molto interessante.
Ezio Granchelli: ve lo presento.
> Ezio Granchelli
Granchelli si occupa di sicurezza sul lavoro da oltre 10 anni come consulente e RSPP di svariate aziende.
In questo ambito, preferisce definirsi “formatore” e “divulgatore”.
I suoi principali impegni professionali, ad oggi, sono tre:
- Vicepresidente di Stone S.p.A., una società di consulenza che rispecchia esattamente la sua esperienza sul campo;
- Project Manager e responsabile scientifico di Kattedra, una piattaforma di e-learning altamente innovativa;
- Membro del Comitato di Presidenza di ASSIDAL, un’associazione datoriale che, oltre all’attività sindacale, su tutto il territorio nazionale assiste i professionisti del settore e opera in qualità di soggetto formatore ope legis, come indicato dai vari Accordi Stato Regioni sulla formazione.
“I miei impegni rispecchiano il mio perché principale: fare in modo che la sicurezza si incardini nella cultura delle persone e delle aziende.
Ma prima di questo, la sicurezza deve rappresentare un valore per noi operatori del settore. Solo in questo modo potremo riuscire ad esercitare un’influenza positiva sugli altri e non cadere noi stessi nella trappola di considerare il nostro lavoro alla stregua di un adempimento burocratico. Sarebbe la fine”.

Quali sono le normative cogenti che regolano gli usi delle PLE e le disposizioni in termini di DPI?
Di seguito la risposta di Ezio, in prima persona.
Di base, il principale riferimento è il D.Lgs 81/2008 ovvero il cosiddetto “Testo Unico per la Sicurezza”.
Il D.Lgs 81/2008 è una norma di sistema.
In altri termini, tale Decreto fornisce indicazioni sulle strategie di carattere organizzativo generale da attuare per gestire in sicurezza i processi relativi anche all’uso delle PLE e di conseguenza anche dei DPI da impiegare.
Ma non basta.
È necessario anche rispettare ulteriori specifiche norme tecniche che, pur non avendo forza di Legge, rappresentano lo stato dell’arte ed alle quali anche i giudici – in sede penale – fanno riferimento.
Pertanto, cito di seguito i principali riferimenti partendo dal D.Lgs 81/2008:
- l’art. 23 vieta ai fabbricanti e ai fornitori di fabbricare, vendere, noleggiare e concedere in uso attrezzature di lavoro non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro
- l’art. 70 prevede che le attrezzature di lavoro messe a disposizione dei lavoratori debbano essere conformi alle specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto
- l’allegato V individua i requisiti generali di sicurezza delle attrezzature di lavoro costruite in assenza di disposizioni legislative o regolamentari e quelle messe a disposizione antecedentemente all’emanazione delle norme legislative e regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto
- l’art. 73, attuato poi con l’Accordo Stato Regioni 22/02/2012, dispone che i lavoratori incaricati dell’uso della PLE vengano specificamente abilitati con un corso di durata variabile in base al tipo di PLE impiegate
- l’intero titolo III capo II (qui citato in breve) disciplina la scelta e le procedure di gestione dei DPI da impiegare, ivi compresa la formazione che i lavoratori devono avere, anche relativamente ai DPI.
Oltre alle disposizioni cogenti, come detto, devono aggiungersi ulteriori molteplici norme tecniche, tra le quali cito solamente:
- La Direttiva 2006/42/CE o “Direttiva Macchine”
- La ISO 18893:2014 contenente principi di sicurezza, ispezione, manutenzione e funzionamento dell PLE
- In generale tutte le norme tecniche UNI EN relative ai dispositivi anticaduta e accessori. Questi sono sistemi complessi che devono essere progettati ed assemblati in modo diverso in base alla valutazione del rischio di ogni singolo scenario; pertanto le scelte operate possono essere estremamente differenti anche in casi apparentemente simili.
Ritornando alle cogenze e relativamente alle disposizioni concernenti i DPI, cito l’art. 4.1 dell’allegato VI D.Lgs 81/2008, per tutte le attrezzature di lavoro che servono a sollevare persone “gli addetti devono fare uso di idonea cintura di sicurezza”.

Quali sono i margini interpretativi delle norme leggi nazionali, cosa delegano alle regioni e quali altri organi hanno deliberato in tal senso.
Prosegue Ezio Granchelli:
“Questa è una domanda molto interessante, che tento di riassumere in tre osservazioni.
E mi permetto di ampliare le risposte non limitandole solo alle PLE, ma più in generale parlando di rischi per la sicurezza.”
La prima osservazione.
Come detto precedentemente, la Legge in materia di sicurezza ha una natura prevalentemente organizzativa.
L’applicazione tecnica rimanda a scelte del datore di lavoro sulla base del progresso tecnologico, che è in continua evoluzione.
Questa previsione è coerente con quanto indicato dall’art. 2087 Codice Civile, il quale ci ricorda che “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Chiaramente, un’impostazione di questo tipo è dinamica e – nella teoria – garantisce in ogni momento l’applicazione della c.d. “massima sicurezza tecnicamente possibile”, senza che si renda necessario aggiornare continuamente i testi di Legge al progresso tecnologico, cosa che li renderebbe obsoleti già al momento della loro pubblicazione.
Per contro, questo approccio si presta a diverse interpretazioni in quanto il datore di lavoro non sempre trova un’indicazione chiara, precisa e puntuale per ogni suo adempimento.
Questa ampia discrezionalità lascia un margine di incertezza quando, alla fine, ci si trova al confronto con i giudici in caso di infortuni gravi.

Immagine dal sito di un produttore di PLE certificate per lo sbarco in copertura.
La seconda osservazione, di natura interpretativa.
Oltre alla natura stessa della Legge, vi è l’aspetto “interpretativo”, appena menzionato. Interpretazione che non dovrebbe esserci, anche secondo quanto espresso nelle Preleggi del Codice Civile (“Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole”)
Ma di fatto l’interpretazione c’è: ecco un esempio pratico.
A partire da che altezza si calcola il c.d. “lavoro in quota”?
Noi operatori del settore abbiamo in testa una risposta chiara: 2 metri.
Ma i 2 metri sono calcolati a partire dall’altezza alla quale si svolge il lavoro – quindi l’altezza delle mani o delle braccia – oppure a partire dall’altezza alla quale si trovano i piedi e quindi l’altezza dalla quale si può cadere?
Nella precedente definizione data dall’art. 16 D.P.R. 164/1956, ora abrogato, si leggeva che “nei lavori che sono eseguiti ad un’altezza superiore ai 2 m, devono essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose”.
Questa definizione è stata spesso applicata anche dai giudici di Cassazione considerando l’altezza delle mani o delle braccia, in quanto si fa riferimento ai “lavori che sono eseguiti ad un’altezza superiore a 2 metri”.
Nell’attuale definizione, data dall’art. 122 del D.Lgs 81/2008 appuriamo invece che “nei lavori in quota, devono essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose”.
La definizione di lavoro in quota, data sempre dal D.Lgs 81/2008 nell’art. 107, è la seguente: “si intende per lavoro in quota: attività lavorativa che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile”.
Il riferimento all’altezza dove si trovano i piedi sembrerebbe quindi chiaro.
In una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n. 39104 del 29 agosto 2018) e come questa molte altre, però, i giudici continuano a considerare come quota di riferimento quella alla quale si svolgono i lavori, quindi le mani.
Ecco quindi che il margine interpretativo, anche in sede giudiziaria, è molto ampio.
Pertanto è sempre bene, nell’incertezza, attestarsi al livello di sicurezza più alto.
Soprattutto nella tutela delle persone, ovviamente.
La terza osservazione, sulle Regioni ed altri organi.
Tutta la formazione è materia concorrente tra Stato e Regioni, per cui il livello di frammentazione è alto ed i tempi di attuazione dei regolamenti attuativi relativi alla formazione sono generalmente lunghi.
Ad esempio, le disposizioni attuative che hanno definito i criteri di organizzazione dei corsi “base” per la sicurezza dei lavoratori sono state emanate nel dicembre 2011, dopo quasi 4 anni dalla pubblicazione del D.Lgs 81/2008.
Anche la normativa che riguarda l’obbligo di realizzazione delle Linee Vita sulle coperture è su base Regionale.
Ad oggi, alcune regioni hanno deliberato in tal senso, altre no.
Questo vuoto normativo non fa venire meno la posizione di garanzia di datori di lavoro rispetto alle scelte organizzative per la tutela dei propri lavoratori o degli appaltatori, cosa non molto chiara a tutti.
Infine tutte le disposizioni degli organismi di normazione (come UNI, CEN e ISO).
Queste norme hanno una valenza fondamentale e costituiscono la vera applicazione pratica delle disposizioni di sicurezza generali stabilite nel Testo Unico, ma richiedono delle conoscenze specifiche, molto verticali, settore per settore.
E quindi l’intervento di specialisti, come ad esempio per la scelta dei Dispositivi di Protezione Individuale, da non prendere affatto per scontata.
Conclusioni Prima Parte sulle PLE.
Con Ezio Granchelli abbiamo appena visto quali sono le normative vigenti e quali le interpretazioni più comuni.
Nella seconda parte, chiederemo sempre ad Ezio quali, secondo lui, sono i vuoti normativi più gravi e più urgenti da colmare.